Il Figlio di Dio entrò nel mondo con l’incarnazione, ciò accadde nella forma della kénosis, in modo non appariscente.
L’incarnazione è vista come una discesa al punto più basso, quello della schiavitù. E attenzione, il testo non dice esplicitamente che “il Figlio di Dio si è fatto uomo”, né che “la Parola si è fatta carne” (Gv 1,14) – anche se non va dimenticato che nel Nuovo Testamento “carne” (sárx) significa proprio la fragilità e la mortalità dell’uomo –, ma che Cristo ha assunto la forma dello schiavo, e in essa “è diventato partecipe dell’umanità, è stato trovato in aspetto come uomo” (cf. Fil 2,7).
Nella teologia cristiana kenosis esprime l'”autosvuotamento” del Logos divino nell’incarnazione, nella realtà della sua ubbidienza verso il divin Padre, nella cosciente accettazione della sua morte.
Cristo sceglie di venire in mezzo a noi: è l’incarnazione, l’umanizzazione di Dio, la sua decisione di diventare uomo.
Il vocabolo doûlos (“servo, schiavo”) non va inteso solo come riferito a una categoria sociale o economica. È certamente anche questo, come Gesù durante la sua vita ha detto (“Io sto in mezzo a voi come colui che serve”: Lc 22,27) e fatto, mostrandosi schiavo fino a lavare i piedi ai suoi discepoli (cf. Gv 13,1-20); ma nel linguaggio paolino, soprattutto nella Lettera ai Romani, con il termine doûlos si designa spesso colui che è “schiavo del peccato” (doûlos tês hamartías: Rm 6,17), soggetto a una potenza che lo trascina lontano dalla volontà di bene (cf. Rm 7,15), dalla volontà di Dio.
Una delle invocazioni tradizionali associate alla kenosis è la celebre preghiera del cuore, detta anche preghiera semplice: «Signore Gesù Cristo, figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore». Il riconoscimento della propria condizione di creatura bisognosa di ristabilire un legame con il suo Creatore, sarebbe infatti, per il cristiano, il primo passo verso la conversione.
Se è vero che il peccato segna costitutivamente l’uomo, è altrettanto vero che Cristo ha accettato di diventare servo in questo senso, fino ad assumere il nostro peccato e a essere fatto peccato per noi (cf. 2Cor 5,21)! Non ha commesso il peccato, ma ha sentito su di sé la tentazione e l’attrattiva del male (cf. Eb 4,15): ecco fin dove Gesù Cristo, il Figlio, ha voluto andare.
Nelle teologie cristiane, Gesù è onorato come vero Dio e vero uomo, senza nessun dilemma logico.
Egli, in quanto Dio, avrebbe secondo alcuni liberamente disposto di “svuotarsi” degli attributi divini di onnipotenza, onniscienza, onnipresenza, eternità, infinità, immutabilità che sono considerati generalmente non compatibili con gli attributi limitati dell’essere umano, finito e mortale, per essere nel Cristo anche veramente uomo, quell’uomo che pure è stato creato appunto a partire dagli attributi divini del suo Creatore e del quale porta l’impronta dello Spirito Santo che “riempie” ogni spazio che lo “svuotamento” per Amore genera.
La non comprensione di tale dilemma ebbe un ruolo centrale nei dibattiti interni al Protestantesimo del XVI secolo.
Alcuni tentarono di risolvere la questione affermando che lo svuotamento non è una perdita definitiva di attributi divini, ma una realtà “temporanea” perché Gesù promette di lasciare agli uomini dopo la morte e resurrezione lo Spirito-Consolatore e di tornare “nella gloria” divina il giorno del Giudizio Finale (cui sono da aggiungere le Apparizioni di Gesù a singoli).
In quel momento, secondo le Scritture, giudicherà tutti gli uomini (onniscienza), resterà con loro (onnipresenza) per un regno che non avrà fine (eternità), senza morte/malattie/dolore e senza il male (onnipotenza).
Secondo la teologia cattolica, condivise in tutto la vita umana, fuorché nel peccato (pur subendone le conseguenze, come la morte): rispetto al peccato, restò l’attributo divino dell’immutabilità, con l’esempio della vita corporea, del pensiero e della volontà.
Noi siamo ormai abituati a questa affermazione, ma si pensi a come essa dovesse suonare folle, blasfema agli orecchi non solo degli ebrei, ma anche dei pagani: Dio che diventa uomo, ovvero ciò che egli per definizione non è, ciò che noi siamo, è l’assurdo, l’inconcepibile.
Questo grande mistero può dare le vertigini a chi lo contempla con consapevolezza: Cristo, colui che era Dio, si è svuotato della sua condizione divina, e ciò gli ha permesso la vita umana, la vita sulla terra da vero uomo.
Fonti
Wikipedia
Don Gino Oliosi
Note di Pastorale Giovanile