Il servizio di Dio innanzitutto, così come proposto dai suoi rappresentanti in terra; quindi, Deus meumque ius, perché il senso della verità e del dovere non deve far velo alla difesa costante del proprio onore personale; poi l’esercizio di virtù naturaliter umane e per questo naturaliter cristiane, quali la disciplina, l’autocontrollo, la moderazione, la dedizione, la protezione dei deboli, la sollecitudine per i propri subalterni, la lealtà verso l’avversario, persino la generosità con il nemico sconfitto.
Un ruolo considerevole è assegnato ai rapporti con la dama, incarnazione della bellezza e della grazia. È un amore rispettoso, tutt’altro che sdolcinato. Certo, nel tempo nostro che vede predominare quella che molti e troppi chiamano sincerità, schiettezza e via dicendo mentre meglio parleremmo di postribolarismo predominante, una tale correttezza si stenta a comprenderla; ma la rottura di ogni senso morale significa proprio il contrario della libertà: il decoro, la dignità, l’indirizzare la natura umana verso l’impero della ragione sulla sensualità animalesca, sono valori che l’età cavalleresca quanto meno insegnava a rispettare, non a deridere.
Un’altra faccia del sentimento dell’onore e del dovere il fanciullo imparava: il mantenere fedeltà al suo signore e alla parola data.
Il Machiavelli non era ancora nato, l’ideale era quello della “cortesia”. In val d’Aosta, esempio degno di maggiore rilievo, i fanciulli di casa Challant venivano condotti di fronte agli stemmi degli antenati, e di ciascuno di questi si ricordavano le nobili azioni affinchè l’azione educativa si fondasse su elementi visivi tali da rafforzare la memoria e meglio foggiare il carattere.
Erano la madre e due gentildonne a preparare il fanciullo a diventare paggio, quindi, alla corte d’un principe o d’un castellano, farsi domicellus e poi scudiere, percorrendo questo iter punteggiato da riti altamente formativi, fino a mostrarsi degno di portare le armi.
Il ventunenne aspirante, superato un vero e proprio esame sotto forma di un’impresa, veniva “armato” cavaliere, ossia, riceveva solennemente le armi tutte sue nel corso d’un rito liturgico di investitura così ricco di simboli visivi e verbali e gestuali, preceduto da una “veglia d’armi” essa pure condotta ritualmente in modo da fissare taluni punti chiave; ed è proprio da questo complesso di atti, se non iniziatici, certo altamente allegorici, che è possibile ricavare parte delle norme morali per le quali la cavalleria avvertiva un legame del tutto particolare.
Alla vigilia della solenne investitura il candidato si sottoponeva al bagno rituale che presenta tutti i caratteri della purificazione fisica intesa come un voto alla purezza dello spirito: una metanoia, un segno di penitenza e di conversione parallelo al battesimo.
Indossava poi una cotta nera simbolo della morte, una tunica bianca simbolo dell’onore, e un manto rosso simbolo del sangue da versare, all’occorrenza, in difese della fede e di tutto ciò che è bene.
Sempre digiuno, trascorreva la notte in cappella, ed era questa la “veglia d’armi”.
Il mattino, dopo la comunione sacramentale e la benedizione della spada, il Vescovo dava lettura dei doveri del cavaliere, poi procedeva all’investitura che consisteva nella vestizione (adoubement), nella consegna delle armi e nell’abbraccio finale (accolade): uno sviluppo delle tradizioni germaniche già note a Tacito e citate nella sua Germania.
Ciascun elemento, come si può vedere, portava con sé un richiamo all’impegno di fedeltà da conservare al prezzo della vita stessa, al fatto che l’impiego delle armi era finalizzato alla tutela dell’onore di Dio e della Chiesa, del sovrano e dello Stato, di sé stesso e degli altri, specie i deboli, gl’inermi, gli indifesi.
La stessa pompa del cerimoniale aveva una funzione ben precisa, più psicologica in senso ampliore che pedagogica in senso stretto: far comprendere che i valori soggiacenti a quelle esteriorità sfarzose erano inerenti al campo della morale e presupponevano l’impegno alla loro difesa.
Fonte
prioratomelitense