In una recente risposta di un sacerdote, il cui nome evitiamo di scriverlo, si evince che un ritardato mentale potrebbe, salvo decisione del vescovo, non essere idoneo alla catechesi e, di conseguenza, probabilmente non ricevere i sacramenti.
Siccome trattasi di discriminazione verso i disabili mentali poiché essi mancano dell’uso di ragione, non è affatto – come alcuni ritengono – derivato da una norma dogmatica della Chiesa.
Semmai proviene da un malinteso teologico-pastorale, tipicamente occidentale e figlio di una sensibilità divenuta, via via, troppo razionale.
Il Concilio di Orange del 441, per esempio, aveva decretato con semplicità: “Amentibus quaecumque sunt pietatis, sunt conferenda.”, ovvero: “ai disabili mentali si deve dare tutto ciò che riguarda la pietà” e perciò – dice l’Aquinate commentando – “si deve loro accordare l’Eucarestia che è il sacramento della pietà”.
Il Catechismo ad parochos, preparato dopo il Concilio di Trento, finirà per dire in maniera precisa: “Amentibus praeterea, qui tunc a pietatis sensu alieni sunt, sacramenta dare minime oportet”. Quello che conta è “tunc”, quel momento. Se le persone non manifestano il senso della devozione, non conviene per nulla dare loro i sacramenti.
La questione era già iniziata con il canone XXI del Concilio Lateranense IV (1215), che decreta:
Qualsiasi fedele dell’uno o dell’altro sesso, giunto all’età di ragione, confessi fedelmente, da solo, tutti i suoi peccati al proprio parroco almeno una volta l’anno, ed esegua la penitenza che gli è stata imposta secondo le sue possibilità; riceva anche con riverenza, almeno a Pasqua, il sacramento dell’Eucarestia…
Confessione e comunione obbligatoria, almeno una volta l’anno, per coloro che sono giunti all’uso di ragione.
Vedete bene che questo canone segna il minimo della pratica, cercando di rivitalizzare la frequenza ai sacramenti, all’epoca troppo disattesi.
Si potrebbe portare però l’esempio del digiuno raggiunto i 60 anni in cui non è vietato digiunare, ma non è considerato un dovere obbligante in coscienza. E’ possibile farlo, anzi è cosa buona farlo, sebbene non sia strettamente dovuto.
L’anima non è sinonimo di cervello, e fede non è sinonimo di coscienza consapevole. La devozione poi non è, in certi casi, facilmente ponderabile.
Così si esprimeva autorevolmente Papa Benedetto XVI nell’esortazione apostolica del 2007 “Sacramentum Caritatis” (n. 58), sciogliendo ogni residuo dubbio:
Venga assicurata anche la comunione eucaristica, per quanto possibile, ai disabili mentali, battezzati e cresimati: essi ricevono l’Eucaristia nella fede anche della famiglia o della comunità che li accompagna.
Se, comunque, è possibile battezzare, e quindi far diventare membro di Cristo, un bambino sano o un disabile, è allo stesso modo possibile offrirgli anche gli altri sacramenti dell’iniziazione cristiana.
La Cresima e l’Eucaristia, che i disabili possono ricevere “nella fede della famiglia o della comunità che li accompagna”, le stesse famiglie e comunità che hanno chiesto per loro il dono del battesimo e della vita in Dio, suppliscono alla devozione imperfetta o assente.
Fonte
cantuale antonianum