Il primo statuto della corporazione giunto fino a noi risale al 1313 in cui sono elencate una serie di disposizioni a cui tutti gli iscritti dovevano attenersi e l’ordinamento interno dell’Arte, retta da 6 consoli, un camerlingo, un notaio, 12 consiglieri, 18 buonomini, 6 statutari e 3 ufficiali.
I consoli venivano eletti 2 volte all’anno e si riunivano ogni settimana; anche il camerlingo, cioè il tesoriere, restava in carica per 6 mesi e vista l’importanza delle sue funzioni, doveva versare una cauzione di 300 fiorini d’oro a garanzia del suo operato.
La tassa d’iscrizione per ogni nuova matricola era fissata in 6 fiorini d’oro, che raddoppiava se il candidato non era nato a Firenze, mentre i figli dei maestri già associati non dovevano versare nessuna quota, ma prestare soltanto giuramento.
Nel 1314 l’Arte acquistò una delle case della famiglia Lamberti per stabilirvi la propria sede, posta nel tratto di Via dei Cavalieri demolito durante i lavori di Risanamento del Mercato Vecchio, oggi ancora visibile tra via Pellicceria e la Chiesa di San Miniato tra le torri; i maestri iscrittisi già dalla fine del Duecento erano oltre 500.
Nel 1770 la corporazione venne soppressa dal granduca Pietro Leopoldo di Lorena.
La medicina medievale si basava molto sulla conoscenza dell’astrologia e benché avesse la pretesa di essere una disciplina empirica, i dottori dell’epoca si affidavano essenzialmente alle virtù curative di certe erbe, acque minerali e di tutti gli elementi naturali, comprese le fasi lunari.
La pratica medica sicuramente più diffusa era il salasso, eseguito mediante incisioni o sanguisughe, nella convinzione che togliere il sangue cattivo avrebbe favorito la rigenerazione di quello buono, portando il paziente ad una progressiva guarigione.
Un altro metodo comune di diagnosi era l’osservazione delle urine, di cui il medico studiava il colore e l’odore prima di pronunciarsi sull’eventuale cura. In realtà, nei casi più semplici, la miglior cura che poteva essere prescritta ad un paziente era del vino rosso e del buon brodo di carne, mentre per riparare ai danni del salasso si ricorreva abitualmente alla bruciatura delle ferite con lame arroventate.
Per gli stati più seri o cronici si faceva invece affidamento alle proprietà curative di certe acque termali o di fonti ritenute benefiche, che effettivamente potevano risultare efficaci nella cura dei calcoli renali o disfunzioni epatiche.
Una malattia molto diffusa tra i membri delle famiglie più facoltose era la gotta; fu questo il male di casa Medici nel Quattrocento, che provocò anche la morte di Lorenzo il Magnifico; i luminari chiamati a consulto provarono di tutto, arrivando a prescrivere un infuso a base di perle e pietre preziose polverizzate.
Le conoscenze più avanzate parevano essere quelle nel campo dell’ortopedia; i medici erano infatti in grado di curare slogature e fratture con steccature o bendaggi molto stretti o mettendo gli arti in trazione. Per i casi più disperati, comunque, non restava che affidarsi alla preghiera, invocando l’intercessione di qualche santo guaritore.
Un’altra terapia tenuta in grande considerazione dai medici dell’epoca era quella a base di erbe officinali, vendute insieme ad altre essenze vegetali, polveri minerali e droghe di vario tipo nelle botteghe degli speziali.
I prodotti ed i preparati vi erano riposti e conservati con cura in vasetti e flaconi di vetro o di coccio, che contenevano erbe essiccate, pepe, senape, zafferano, zenzero, cera, pece, allume, piombo e tanto altro ancora, rendendo la bottega dello speziale qualcosa di simile alle odierne erboristerie e farmacie. Il “farmacista medievale” quindi preparava pozioni, impiastri, unguenti, pillole, galle, cosmetici e profumi.
Era abbastanza frequente comunque che i medici stessi avessero una loro bottega in cui preparavano personalmente le medicine da somministrare ai pazienti e che gli speziali fossero “convenzionati” con alcuni dottori ed usassero la bottega come ambulatorio per le visite.
Le spezierie più famose erano quelle della famiglia Toscanelli dal Pozzo, vicino alla Badia fiorentina, quella della famiglia Grazzini all’angolo tra Piazza San Giovanni e Borgo San Lorenzo (dove ancora oggi si trova una farmacia ed in cui nel 1582 venne fondata l’Accademia della Crusca) e quella dell’illustre Matteo Palmieri, che ricoprì la carica di Gonfaloniere di Giustizia nel 1453 ed aveva la sua bottega nel quartiere di Santa Croce.
Alla fine del Quattrocento l’Arte pubblicò un testo chiamato Il ricettario fiorentino, un compendio sulle conoscenze farmacologiche dell’epoca, in cui erano fissate con la massima precisione le dosi di preparati medicinali che tutti i soci dovevano rispettare per legge.
La pubblicazione dal 1499 al 1789 ebbe numerose edizioni e ristampe. La redazione è affidata al Collegio medico di Firenze dai Consoli dell’Arte dei medici e degli speziali la cui autorità era tale che poteva sottomettere all’osservanza del codice farmaceutico i medici e gli speziali della città e del contado anche senza l’intervento del magistrato, affinché tutti gli speziali potessero fare le medesime preparazioni e composizioni secondo le regole stabilite.
Il ricettario fiorentino può essere considerato la prima Farmacopea pubblica come oggi l’intendiamo. Al concetto di ufficialità introdotto dal Ricettario si ispirarono tutte le successive Farmacopee pubblicate sia su territorio italiano sia all’estero.
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