Il furbo Zaccheo, non potendo comprare la Grazia con il vile denaro, cerca di corrompere Gesù; corre, si affretta, sale su un sicomoro. Lui è il capo dei Pubblicani ed è ben chiaro che vuol essere anche in questo caso al di sopra di tutti, della feccia umana che lo serve dandogli ciò che chiede per conto dei romani, gli invasori.
Zaccheo cerca una possibile redenzione, perché sa perfettamente di essere coinvolto in losche situazioni e lo annuncia apertamente, in una sorta di confessione pubblica, quindi un tentativo di lavarsi la coscienza cercando in Gesù il capro espiatorio.
Quello che Zaccheo cerca di fare è sottrarsi alla pena per gli usurai, si pensi infatti, nell’ultimo secolo della repubblica, all’editto di Lucullo nella provincia Asia (72-70 a.C.) ed a quello di Cicerone nella Cilicia (51 a.C.), tramite i quali vennero appunto imposti limiti e finanche divieti agli interessi ed all’anatocismo.
Nella Giudea, intorno al 30 d.C., nell’editto e nelle norme disciplinanti la riscossione delle imposte, era stabilita la pena del quadruplo per gli usurai e probabilmente per i pubblicani che avessero illecitamente esatto somme di denaro o, in qualche modo, frodato la “stazione appaltante” (leges).
Quella pena del quadruplo che, fin da età antichissima, era inflitta all’usuraio che avesse estorto illecitamente una somma di denaro che non gli spettava, viene testimoniata dalla confessione pubblica di Zaccheo a Gesù.
Alla fine della disamina, Zaccheo ha usato Gesù per evitare la gravosa pena del quadruplo che inseguiva gli usurai dovunque si trovassero, per la cattiva condotta. Gesù a sua volta conscio di tale pena, come già aveva fatto altre volte in situazioni differenti, come la lapidazione della donna adultera, salva il pubblicano, per far capire a chiunque che il pentimento è più spirituale piuttosto che legislativo.