
Nell’ambito delle diverse scuole buddhiste ci sono diverse interpretazioni del concetto di reincarnazione. In termini generali, e tenendo conto che i limiti non sono mai netti, le scuole che la contemplano maggiormente sono quella del Veicolo adamantino o buddhismo Vajrayāna, che comprende soprattutto il cosiddetto buddhismo tibetano, e la scuola Theravāda di derivazione Hīnayāna o del Piccolo veicolo.
Per entrambe queste scuole è centrale il concetto di saṃsāra, ossia del ciclo di vita nel mondo materiale di tutti gli esseri, che non si conclude con la morte, ma che ricomincia con una rinascita e quindi con una reincarnazione fino alla liberazione nel Nirvana dal ciclo di nascita e morte.
Questa concezione della reincarnazione è di derivazione induista, nell’ambito del quale viene contemplato un ātman ossia un sé assimilabile a ciò che gli occidentali chiamerebbero anima; ma la concezione induista si scontra nel buddismo con la dottrina dell’anātman, o non sé, che nega l’esistenza in primo luogo di un io individuale, permanente e immutabile. Per cui la domanda è: se non esiste un io, un sé e quindi un’anima, cosa si reincarnerebbe?
Nel buddhismo Mahāyāna permane la contraddizione ma in alcune scuole come quella dello Zen e soprattutto nell’abito dello Zen occidentale contemporaneo, si pone l’accento sul fatto che la tradizione del buddhismo antico non parla di reincarnazione ma di rinascita, che andrebbe intesa come rinascita psicologica che avviene in questa vita nel momento in cui si arriva all’illuminazione anch’essa raggiungibile in questa vita.
Anche il concetto di karma come principio di causa-effetto è inquadrato nell’ambito di una sola vita in cui a ogni azione negativa conseguiranno effetti negativi sulla propria vita e a ogni azione positiva conseguiranno effetti positivi sulla propria vita.
Anche lo Zen però non risolve in modo definitivo la questione perché parallelamente continua ad affermare la dottrina dei Bodhisattva secondo cui gli esseri umani che hanno raggiunto l’illuminazione, dopo la cessazione della loro vita terrena, scelgono di tornare a vivere all’interno di un corpo terreno per continuare ad aiutare tutti gli esseri, riammettendo così il concetto classico induista di reincarnazione.
Un altro tentativo di superare la contraddizione viene fatta recentemente in ambito Zen da Thích Nhất Hạnh che dice che, come si afferma nei sutra, non esistendo né nascita e né morte non ha senso parlare in termini di reincarnazione o di rinascita, ma secondo il monaco Zen sarebbe invece più corretto parlare di ri-manifestazione, non precisando tuttavia come questa sua concezione si possa integrare con la concezione della reincarnazione dei Bodhisattva.
Nella scuola degli Yogācāra, appartenenti al buddhismo Mahāyāna, ha avuto origine la dottrina dell’ālāyavijñāna, la “coscienza deposito”, l’ottava delle “coscienze”, Vijñāṇa, quale responsabile del trasferimento dei semi, o impressioni, che gli atti volitivi lasciano sul loro autore, anche alle rinascite successive.
Questa coscienza successivamente venne identificata da alcuni autori Yogācāra come uguale al concetto del Tathāgatagarbha, la “Matrice dei Così-Venuti/Andati”, e pertanto è ritenuta assolutamente identica alla Vacuità. È da tener presente che la dottrina dell’ālāyavijñāna fu tuttavia criticata e rigettata dagli autori Mādhyamika, un’altra importante scuola Mahāyāna, come “sostanzialista” in quanto sostanziava la Vacuità attribuendole un’esistenza propria.
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