
Il termine sanscrito karman ha origine dalla radice verbale sanscrita kṛ avente il significato di “fare” o “causare”, presupponendo la condizione di “creare qualcosa agendo”, corrispondente al greco antico kraínō (“realizzare”) e al latino creo-are (“creare”).
La sua radice indoeuropea corrisponde a *kwer (atto sacro, atto prescritto) e la si riscontra nel latino caerimonia da cui, ad esempio, l’italiano “cerimonia” o l’inglese ceremony.
Nelle altre lingue asiatiche il termine sanscrito karman viene così reso:
in pāli: kamma;
in cinese: 業 yè;
in giapponese 業 gō;
in coreano 업 eop;
in vietnamita nghiệp;
in tibetano las.
La dottrina moderna del karman origina dalle speculazioni religiose delle Upaniṣad vediche; essa è oggi centrale nell’Induismo, nel Buddhismo, nel Sikhismo e nel Giainismo. Così in ambito induista è comunemente considerata la parte non-materiale delle azioni, ed è la causa del destino degli esseri viventi.
In Occidente si diffuse nel corso del XIX secolo, divulgato dalla Società Teosofica, ed è al centro anche di molte dottrine New Age.
Originariamente la nozione religiosa espressa dal termine sanscrito karman indicava un rituale correttamente eseguito. La Religione vedica era essenzialmente fondata sul sacrificio (Yajña) occasione di scambio di doni tra gli Dei (Deva) e gli uomini. Tale scambio era libero e gli Dei potevano o no rispondere alle esigenze degli uomini.
Sconosciuta è invece nel Vedismo qualsiasi nozione inerente alla sofferenza delle esistenze e della consequenziale necessità di compendiare un percorso di liberazione (mukti) da essa: con il sacrificio si cercava di guadagnare i godimenti terreni (bhukti).
Con l’avvio dei testi Brāhmaṇa, il sacrificio vedico progressivamente si razionalizza e organizza. Gli Dei sono ora costretti dalle formule sacrificali (mantra) a rispondere necessariamente ai doni degli uomini. Il sacrificio vedico possiede qui una rispondenza automatica e necessaria.
I sacrifici sono ora officiati da una casta precisa, i brahmani, raggiungendo costi onerosi, e quindi il proponente (yajamāna) richiedeva la certezza del risultato.
L’azione rituale del brahmano, qui denominata con il preciso termine di karman, acquisiva un successo automatico se il rito era eseguito in modo corretto, ma tale risultato era proiettato sempre e comunque nel futuro.
Il risultato sacrificale poteva dunque essere realizzato anche nella vita prevista dopo la morte. L’uomo possedeva, era un contenitore che raccoglieva le proprie azioni religiose in vista del suo futuro[10].
Così in un inno tardo del Ṛgveda X,14,8:
(SA)
«saṃ ghachasva pitṛbhiḥ saṃ yameneṣṭāpūrtena paramevyoman hitvāyāvadyaṃ punarastamehi saṃ ghachasva tanvāsuvarcāḥ»
(IT)
«Incontra i padri incontra Yama nel più alto cielo, grazie ai tuoi sacrifici e alle tue azioni meritorie. Avendo lasciato ogni imperfezione, torna ancora alla tua dimora, assumi un corpo pieno di vigore»
(Ṛgveda X,14,8)
Nei Brāhmaṇa il sacrificio è indicato come apūrvakarman (atto il cui esito ancora non è stato raggiunto).
Il mondo dell’individuo è un mondo che lui stesso ha deciso, con le sue azioni religiose, a “costruirsi”. Così la Kauṣitakī Brāhmaṇa XVI, 2,3:
(SA)
«atha ha sma āha kauṣītakiḥ parimita phalāni vā etāni karmāṇi yeṣu parimito mantra gaṇaḥ prayujyate atha aparimita phalāni yeṣu aparimito mantra gaṇaḥ prayujyate mano vā etad yad aparimitam prajāpatir vai mano […] mitam ha vai mitena jayaty amitam amitena»
(IT)
«Kauṣītakī affermava: limitati sono i risultati dei riti in cui è recitato un limitato numero di formule sacrificali- infiniti sono i frutti dei riti in cui è recitato un infinito numero di formule sacrificali- la mente è l’infinito- Prajāpati è la mente-[…] si ottiene un limitato attraverso il limitato, l’infinito attraverso l’infinito»
(Kauṣitakī Brāhmaṇa XVI, 2,3)
Sylvain Lévi nota, riferendo dei testi Brāhmaṇa che trattano del sacrificio vedico come
«La grande arte sta nel conoscere le misteriose leggi di causalità che reggono i fenomeni del sacrificio»
(Sylvain Lévi. La dottrina del sacrificio nei Brāhmaṇa. Milano, Adelplhi, 2009, pag. 142)
Karman nella prima cultura vedica è quindi solo l’atto religioso, e corrisponde come nozione alla sua radice indoeuropea.
Essendo il sacrificio l’atto religioso per antonomasia della cultura vedica, e acquisendo nel corso dei secoli lo scopo di ottenimento necessario di “favori” dagli Dei vedici, l’atto religioso (karman) del brahmano svolto a favore di coloro che chiedono il sacrificio riverbera su questi ultimi come risultati futuri, anche dopo la morte.
Chi fa celebrare molti karman nella sua vita attuale otterrà molti risultati favorevoli nella vita futura, e chi ne celebrerà pochi otterrà pochi meriti per la vita futura.