Io vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio io l’ho fatto conoscere a voi (Gv 15, 15). Chi infatti oserà affermare o credere che un uomo possa sapere tutto ciò che il Figlio unigenito ha appreso dal Padre, dato che nessuno può riuscire neppure a capire in qual modo il Figlio possa udire qualcosa dal Padre, essendo egli il Verbo unico del Padre?
Non solo: un po’ più avanti, in questo medesimo discorso che egli tenne ai discepoli dopo la cena e prima della passione, il Signore dichiara: Ho ancora molte cose da dirvi, ma adesso non siete in condizione di portarle (Gv 16, 12).
In che senso dunque dobbiamo intendere che egli ha fatto conoscere ai discepoli tutto ciò che ha udito dal Padre, se rinuncia a dire molte altre cose appunto perché sa che essi non sono in condizione di portarle? Gli è che asserisce come fatte le cose che vuol fare, egli che ha fatto le cose che saranno (cf. Is 45, 11).
Allo stesso modo infatti che dice per bocca del profeta: Mi hanno trafitto mani e piedi (Sal 21, 18), e non dice: “mi trafiggeranno” perché predice cose future parlandone come se già fossero avvenute; così anche qui dice di aver fatto conoscere ai discepoli tutto ciò che si propone di far conoscere in quel modo pieno e perfetto di cui parla l’Apostolo quando dice:
Allorché sarà venuto ciò che è perfetto, quello che è parziale verrà abolito, e così continua: Ora conosco parzialmente, allora conoscerò anch’io come sono conosciuto; al presente vediamo mediante specchio, in maniera enigmatica; allora invece faccia a faccia (1 Cor 13, 10 12).
Lo stesso Apostolo che ci dice che siamo stati salvati mediante il lavacro di rigenerazione (cf. Tt 3, 5), ci dice anche:
Nella speranza noi siamo stati salvati. Ora, la speranza che si vede non è più speranza: difatti una cosa che qualcuno vede, come potrebbe ancora sperarla? Se pertanto noi speriamo ciò che non vediamo, l’attendiamo mediante la pazienza (Rm 8, 24-25).
E’ in questo senso che il suo collega Pietro dice:
Ora voi credete in colui che non vedete; ma quando lo vedrete, esulterete d’una gioia ineffabile e gloriosa, ricevendo così il premio della fede: la salvezza delle vostre anime (1 Pt 1, 8-9).
Se ora dunque è il tempo della fede, e frutto della fede è la salvezza, chi potrà dubitare che bisogna trascorrere la vita nella fede, che opera mediante l’amore (cf. Gal 5, 6), e che al termine si potrà conseguire il fine della fede, che consiste non solo nella redenzione del nostro corpo di cui ci parla l’apostolo Paolo (cf. Rm 8, 23), ma anche nella salvezza della nostra anima di cui ci parla Pietro?
Questa felicità del corpo e dell’anima, nel tempo presente e in questa vita mortale, si ha piuttosto nella speranza che nella realtà; con questa differenza che, mentre l’uomo esteriore, cioè il corpo, va corrompendosi, quello interiore, cioè l’anima, si rinnova di giorno in giorno (cf. 2 Cor 4, 16).
Pertanto, come aspettiamo l’immortalità della carne e la salvezza dell’anima nel futuro, sebbene l’Apostolo dica che a motivo del pegno già ricevuto siamo stati salvati, così dobbiamo sperare di sapere un giorno tutto ciò che l’Unigenito ha udito dal Padre, sebbene Cristo affermi che questo si è già ottenuto.
Sant’Agostino d’Ippona