Uno dei tre discepoli di Gesù ritratti dall’evangelista Matteo durante la narrazione della Trasfigurazione è Giacomo, fratello dell’apostolo Giovanni, detto “Maggiore” per distinguerlo da Giacomo di Alfeo.
La sua esistenza cambia in modo radicale quando accoglie l’invito del Maestro a diventare “pescatore di uomini”, come descritto in Matteo: “Andando oltre [Gesù] vide altri due fratelli, Giacomo di Zebedeo e Giovanni suo fratello, che nella barca insieme con Zebedeo, loro padre, riassettavano le reti. Ed essi subito, lasciata la barca e il padre, lo seguirono”.
Giacomo, chiamato “l’amico del Signore”, proviene da una famiglia di pescatori di Betsaida, una cittadina posta sul lago di Tiberiade ed assieme a suo fratello Giovanni avevano l’appellativo di “boanergés” (figli del tuono) [1].
Giacomo è testimone della gloria del Salvatore nella Trasfigurazione e partecipa anche all’agonia del Messia, nell’orto del Getsemani: “Presi con sé Pietro, Giacomo e Giovanni – e cominciò a sentire paura ed angoscia”.
Gesù aveva preannunciato a Giacomo il suo martirio dicendo: “Potete bere il calice che io sto per bere?”. Lui e Giovanni gli avevano risposto: “Lo possiamo”.
Giacomo è il primo martire tra gli apostoli: viene messo a morte nel 44 d. C. a Gerusalemme dal re Erode Agrippa I, nipote di Erode il Grande.
Negli Atti degli Apostoli è scritto: “In quel tempo il re Erode cominciò a perseguitare alcuni membri della Chiesa. Fece uccidere di spada Giacomo, fratello di Giovanni”.
Il Nuovo Testamento conosce, oltre a Giacomo di Zebedeo e a Giacomo di Alfeo, un altro Giacomo, detto “il Giusto” o “il fratello del Signore”, esponente di spicco della chiesa di Gerusalemme, ma va detto che la tradizione cattolica identifica Giacomo di Alfeo, detto il Minore, con Giacomo il Giusto.
Giacomo il Giusto è considerato dalla critica più recente come l’autore dell’omonima Lettera di Giacomo, nonché tenace difensore dell’elemento giudaizzante all’interno della comunità protocristiana.
Il libro degli Atti degli Apostoli parla di questo Giacomo come di una colonna della chiesa assieme a Giovanni e Cefa. A lui, l’autore degli Atti attribuisce il discorso con cui vengono risolte le controversie di Antiochia e Gerusalemme.
La lettera apostolica che la chiesa gerosolimitana invia a tutte le comunità viciniori riporta testualmente il contenuto del discorso di Giacomo, con il quale si definisce cosa bisogna esigere dagli etnico-cristiani perché sia possibile ai giudeo-cristiani frequentarli senza contrarre impurità legale.
NOTE – Wikipedia
[1] In realtà il significato del termine non è immediato, in quanto la resa greca dell’aramaico non è perfetta. La prima parte (βοανη, boanè) può corrispondere al plurale aramaico-ebraico בני (b enè), “figli di” (al singolare sarebbe bar, vedi Barabba). Per la seconda parte (ργες) è stata ipotizzata un’errata lettura da un manoscritto aramaico, precedente alla redazione evangelica in greco, del termine r’m (“tuono”) nell’evangelico r’s (ργες), data la somiglianza tra la mem finale ם (quadrata) e la samech ס (tondeggiante). In questo caso l’epiteto viene collegato al temperamento focoso dei due fratelli (vedi in particolare Mc9,38; Mc10,35-40; Lc9,54), oppure può riferirsi al fatto che, nelle teofanie dell’Antico Testamento (p.es. Es19,16; Sal29,3), il tuono indica la voce di Dio: in tal senso “figli del tuono” indicherebbe la missione dei due fratelli di annunciatori della parola di Dio. Un’interpretazione diversa ipotizza altre radici semitiche come רגש (ragàsh), “tumulto”, oppure רגז (ragàz), “ira”, “turbamento”. In tal senso, è stato ipotizzato che il nome fosse riferito ai fratelli per un’ipotetica loro appartenenza al movimento nazionalista zelota.